Una notte mio padre mi raccontò di un tizio che coltivava piante tropicali. Non lo faceva spesso. Mio padre in genere si piazzava a vedere un film, dopo cena, e si addormentava quasi subito. Ma quella notte era diversa. Una pioggia gelida aveva tormentato la zona per tutto il giorno. Aveva smesso da poco, e si era alzato il vento. Gli alberi si piegavano e si contorcevano nella notte. Il rumore del vento impediva di sentire la televisione. Così l’avevamo spenta. Ce ne stavamo davanti al caminetto acceso. Con le luci spente. Mio padre beveva un brandy e fumava un sigaro. Io in un angolo del divano, sotto un plaid, mangiavo patatine e bevevo un cioccolato. E a un certo punto mio padre aveva iniziato a parlare di questo tizio.

 

la serra racconto horror

Si chiamava Armand Toussaut, un uomo molto ricco, aveva ereditato una fortuna dal padre notaio. Non aveva seguito la strada del padre, si era messo a commerciare piante tropicali. Aveva una grande serra nel suo giardino. Toussaut l’aveva dotata di un sistema di pompe di calore e di irrigazione di nuova generazione. Aveva creato un microclima tropicale perfetto. Le piante crescevano rigogliose. Alcune di queste piante non si erano mai viste in Europa. Usava ormoni e altre sostanze, per farle crescere più in fretta e più grandi.
Toussaut era un uomo solitario. Godeva solo della compagnia delle sue piante. Si aggirava per la serra contemplando i banani, le mangrovie che crescevano in uno stagno al centro della serra, gli alberi di cacao, le epifite, l’eliconia e altre piante dai nomi meno conosciuti.
Usciva raramente dalla sua proprietà. Lo faceva quando si doveva recare in paese, al laboratorio alchemico dove ordinava gli ormoni e gli altri nutrienti per le sue piante. Passava anche all’emporio per la spesa, comprava molta carne e formaggio. All’emporio segnavano tutto su un taccuino lercio e il proprietario, un vecchietto che si faceva chiamare Arno, gli offriva dell’idromele fatto in casa che puntualmente Toussaut rifiutava. Comprava solo delle caramelle gommose che Arno teneva in grossi barattoli di vetro su scaffali impolverati dietro il bancone. Il resto glielo portavano a casa più tardi. Di solito, dopo aver fatto l’ordine, faceva una breve passeggiata. Era un uomo corpulento. Aveva il fiato corto dopo pochi passi. Lì vicino c’era una scuola. Di fronte, una gelateria. Prendeva un gelato al cioccolato con panna e gherigli di nocciola. Si sedeva lì fuori a mangiarlo e osservava i bambini che giocavano nel cortile. Mangiava lentamente assaporando il gusto del cioccolato mentre i suoi occhi percorrevano febbrili il cortile alla ricerca dei dettagli. Si soffermava sulle caviglie e i polpacci, le nuche imperlate di sudore, i capelli che fluttuavano nell’aria. Le gonne delle bambine si sollevavano con innocenza, scoprendo le gambe bianche e affusolate. Toussaut sudava irrequieto, e tremava come una gelatina. Terminato il gelato tornava alla villa e si preparava una cena a base di stufato e patate al forno. Andava a dormire presto e al mattino alle 5 era già a lavorare nella serra.
Un giorno notò delle grosse ragnatele in un angolo. Erano molto spesse, gli ci volle del tempo per disfarsene. Lì vicino c’era un albero cavo. Esitò prima di dare un’occhiata all’oscuro anfratto. Poi però si tirò indietro. Colto da un timore improvviso.
Tornerò più tardi, pensò. Ma passarono i giorni e non si avvicinò più a quella zona. Un giorno, vide distrattamente che erano riapparse le ragnatele. Ancora più grosse. Aveva bofonchiato qualcosa e poi aveva tentato di chiudere la porta della serra. Le chiavi erano cadute. Si era chinato con fatica e aveva riprovato a chiudere con le mani che tremavano. Era riuscito a guadagnare l’ingresso di casa e poi era crollato sul pavimento, svenuto.
L’aveva trovato la ragazza che veniva saltuariamente a fare le pulizie. Quella mattina non era di turno ma era venuta per chiedergli di anticiparle di un giorno la paga. Aveva avuto delle spese urgenti per le cure mediche alla figlioletta.
Lo portarono all’ospedale dove gli fu diagnosticato un piccolo problema cardiaco. Lo tennero in osservazione per un mese. Per tutto quel tempo, chiuso nella sua camera privata all’ultimo piano dell’ospedale non fece che pensare alla serra. Aveva raccomandato alla ragazza delle pulizie di non fare avvicinare nessuno. La donna le aveva suggerito il nome di suo marito, faceva lavori di giardinaggio nel tempo libero per arrotondare. Toussaut le aveva riso in faccia. Solo un’artista poteva occuparsi della sua serra, non un umile giardiniere.
Tuttavia pensava con preoccupazione alla sua serra e negli ultimi giorni di convalescenza il pensiero di quelle grosse ragnatele era cresciuto fino ad assumere i contorni dell’intero problema.
Tornato dall’ospedale aveva trascorso molti giorni in casa, senza uscire. Dalla finestra del soggiorno contemplava la serra. Curiosamente non provava nulla. Aveva passato in quel luogo gran parte della sua vita. Non ricordava di sé altro. Che quelle piante, quel microclima che lo faceva credere di essere altrove. Un altrove che non avrebbe mai osato toccare. Ora gli era totalmente indifferente. E stava pensando di farla demolire. L’immagine delle ragnatele si era dissolta. Per lui ormai quella serra era un involucro ripugnante di vegetali in putrefazione. Ci furono giorni in cui si dimenticò persino di possederla.

Ma una vicina venne a trovarlo. Abitava a qualche centinaia di metri in una piccola proprietà ai margini del suo parco. Era attempata e si era vestita come la domenica quando andava a messa. Indossava un buffo cappellino e una faccia preoccupata.
Non amava ricevere ospiti ma decise di fare il buon padrone di casa. La fece accomodare nel suo soggiorno e le offrì del tè e pasticcini.
Il suo gatto era sparito da giorni. Non si riusciva a trovarlo.
Toussaut aveva commentato con voce apatica che era costume tipico dei gatti.
Spariscono per giorni e poi magari finiscono sotto un auto o annegati in qualche torrente o mangiati da qualche bestia feroce.

La donna lo aveva guardato male e non era più tornata a trovarlo. Mentre la vedeva uscire dalla sua proprietà pensò alla serra.
Da tempo non ci pensava più. Si avvicinò alla finestra e la guardò.
I vetri erano appannati perché là dentro c’era molta umidità. Non si vedeva nulla. Decise di andare a dare un’occhiata, senza troppo entusiasmo.
Mentre si avvicinava ripensò a quel colloquio. All’aria affranta della signora e al pensiero che ossessivamente gli era girato nella testa. Perché sto pensando alla serra? Perché ci sto pensando? E più si avvicinava, pestando l’erba alta e più diventava logico tutto quello su cui aveva rimuginato.
Sostò per riprendere fiato. Non si vedeva nulla all’interno. Tuttavia il sole doveva entrare dai grandi lucernari sul tetto.
Aprì la porta con difficoltà perché le piante erano cresciute tanto da bloccare l’entrata. C’era un groviglio spaventoso. La luce non riusciva a toccare terra. Così andò a recuperare un machete affilato che teneva nel capanno degli attrezzi.
Ci mise un sacco di tempo ad avanzare. Era riuscito a percorrere pochi metri ed era già sudato e sbuffava affaticato. Alzò gli occhi al soffitto e vide le enormi ragnatele. Da queste ragnatele pendevano grossi fagotti. Alcuni di questi fagotti si agitavano. Erano gatti, cani e altre creature. Poi vide fagotti ancora più grandi. E smise di chiedersi cosa contenessero. Perché aveva capito ed era piegato in due dal vomito. Poi in un angolo vide il ragno. Era talmente grande che nei suoi milleocchi vedeva riflessa l’intera giungla che era cresciuta nella serra. Lo vide camminare sulla sua orrenda ragnatela verso un grosso fagotto. Lacerò la tela con le sue grandi zampe. Toussaut udì un piccolo lamento. Emerse la testa di un bambino. Il ragno appoggiò la bocca sulla testa e cominciò a succhiare. La piccola testa scoppiò come un frutto marcio. Il ragno succhiò carne, cervello, sangue, ossa finché non restò nulla. Poi sguarciò il corpicino e lo divorò. Toussaut vide pezzi di stomaco e le interiora che cadevano sulle piante. Gli occhi gli caddero sui sacchi degli ormoni. Erano impilati lì vicino. Parzialmente occultati da rampicanti e felci. Alcuni erano squarciati. Il ragno se n’era nutrito. Vide le uova pulsanti, migliaia di uova, grosse come quelle dello struzzo.
Fece due conti e rabbrividì. Pensò a quel grosso ragno e vide il buco dal quale scappava ogni notte per catturare le sue prede. Non si limitava ad attenderle nella sua tela. Le andava a cercare. Sfidando un mondo che non conosceva e che non era il suo. Lo immaginava entrare nelle case e catturare i bambini avvolgendoli nella sua tela dopo averli trafitti con il pungiglione velenoso. Probabilmente non riesce a trasportare degli adulti, pensò con sollievo. Ma contemplò quelle uova ributtanti. Pensò a una nuova razza mutante. Ebbe paura. Fuggì dalla serra. Passò qualche giorno.
Ci fu un grosso incendio. E la serra venne distrutta.
Toussaut non venne mai ritrovato.

la serra racconto horror

Quel che restò della serra venne demolito. Il nuovo proprietario della villa voleva una piscina al suo posto. Così scavarono laddove una volta sorgeva la grande serra. Gli scavi si interruppero di colpo un giorno perché la scavatrice aveva urtato qualcosa di strano. L’ingegnere accorso sul posto entrò nel cantiere e vide uno strano oggetto emergere dal terreno. Lo fece pulire dalla terra. Sembrava un tronco. Forse c’erano degli alberi là sotto? Fece venire avanti la scavatrice e indicò il punto dove dovevano scavare. Poco dopo la terra tremò e grossi anfratti si aprirono nel terreno. Poi ci fu una specie di esplosione, la terra si sollevò. Ne emerse un verme, forse un lombrico, di proporzioni inaudite. L’ingegnere contemplò quel mostro e poi svenne.
Gli operai abbandonarono il cantiere.
Non si seppe più nulla di quella creatura. Polizia e pompieri allertati tornati sul posto non videro nulla, a parte l’immensa voragine. E la figura macilenta dell’ingegnere, coperto di terra. Spuntava solo la testa completamente bianca dallo spavento. L’ingegnere da allora si rifiutò di lavorare ad altri progetti che richiedessero scavi. La villa rimase invenduta per anni e decenni divenendo un luogo di culto e di gioco per i ragazzini dei dintorni, che si sfidavano a entrarci di notte. Non tutti riuscivano a tornare a casa. Così venne recintata col filo spinato. E divenne monito per i bambini del posto: “Bada che se non fai il bravo ti porto alla villa di Toussaut e ti lascio lì”.

 

Le fiamme del caminetto erano quasi spente. Mio padre aveva gli occhi fissi sulle braci. Il bicchiere vuoto. Gli chiesi se quella storia fosse vera e lui mi rispose che ci potevo scommettere. Rise, ma senza cattiveria. Poi aggiunse che se non ci credevo, potevo recarmi di persona nel paese dove sorge quella villa e chiedere alla gente del posto.
Non ci sono mai andato. Non per paura e nemmeno perché pensavo fosse una stupidaggine andarci. Anzi, ci avevo pensato spesso, contemplando il tragitto che avrei dovuto percorrere. Non ci sono mai andato perché in fondo era una questione di fede. E badate bene, non ho detto che ci credo. Talvolta semplicemente mi piace che rimanga un po’ di dubbio alla fine della conoscenza. Senza questo non ci sarebbe nulla da raccontare, nulla per cui rabbrividire. Dubbio e fede, se ci pensate sono all’origine di ogni racconto. E questo, come altri, non fa eccezione.

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