Tornare al cinema finalmente. Perché il luogo prescelto per godere del cinema è la sala cinematografica. Tornare significa che siamo già stati tutti là, nessuno escluso. Ma ce ne siamo allontanati col tempo. Pandemia, pigrizia, mancanza di denaro. Tutte ipotesi. La mia teoria è che siamo sempre stati là ma non abbiamo più chiuso gli occhi, non ci siamo più abbandonati a quella visione estatica. Con l’occasione della riapertura delle sale dopo i tragici eventi legati alla pandemia ripubblico vecchi frammenti sul cinema perduti in qualche polveroso cassetto.

donnie darko kelly tornare al cinema

Il piano sequenza ovvero il cinema. C’è un tipo di montaggio nel cinema che ha come regola primaria il non ricorrere al montaggio. Un piano sequenza è una scena senza stacchi della cinepresa. Un film è questo: un insieme di pezzi, di inquadrature che vengono montate e danno alla fine l’illusione della continuità spaziale e temporale. In Otello di Orson Welles il protagonista entra in un palazzo, la scena è stata girata a Venezia, l’ingresso invece vero e proprio nel palazzo è stato girato a Cipro, il montaggio ci illude che la scena sia continua, che non ci sia nessuna frattura tra le due immagini. In Donnie Darko (2001) il piano sequenza viene arricchito dal fast forward e dallo slow motion. I personaggi protagonisti della vicenda del film di Richard Kelly ci vengono mostrati all’interno della scuola grazie all’uso combinato di queste tecniche. La camera indaga lo spazio alla ricerca dell’oggetto del desiderio, il movimento è neutro, quando trova l’oggetto si sofferma, rallenta, il tempo è sospeso, dilatato, lo spazio diventa magico e liquido attorno al personaggio, poi accelera improvvisamente come bramasse altra carne, come fosse affamata di corpi. La nouvelle vague ha fatto del piano sequenza un principio cardine del suo realismo, contrapponevano una scena filmata senza stacchi all’artificio del montaggio classico e delle riprese negli studios tipici del cinema francese classico. Godard smontava il meccanismo di inganno del montaggio, della tecnica hollywoodiana codificata e indiscutibile chiamata decoupage classico, in un film come A bout de soufflé, dove le regole auree dei cineasti americani venivano infrante con ostinazione e consapevolezza politica e intellettuale, portando alla luce cioè l’artificio del montaggio, il segno della sforbiciata. A ben scrutare nel buio delle innumerevoli sale cinematografiche che ci siamo lasciati alle spalle il montaggio e il piano sequenza, due tecniche così opposte, agli antipodi della visione, sembrano rappresentare due idee di cinema a cui non possiamo rinunciare, due idee che nella loro opposizione offrono a registi di talento la possibilità di mostrarci qualcosa che vada oltre il banale intrattenimento, possono mostrarci qualcosa di nuovo, un nuovo modo di vedere le cose e di relazionarle.

rapina a mano armata kubrick tornare al cinema

L’acronia e il senso del tempo. Kill bill e Rapina a mano armata. Sono film molto diversi tra loro, con registi agli antipodi, Tarantino e Kubrick, ma hanno una cosa in comune: sono acronie. Che cos’è il tempo in un’opera artistica di qualsiasi tipo ? E’ un personaggio, un personaggio invisibile che tesse trame alle spalle dei personaggi visibili. E’ un modo in cui gli eventi narrati si dispongono o meno. E’ un modo di dare ordine alle cose o disordine se volete. In nessun caso il tempo di una narrazione è il tempo cronologico come lo conosciamo noi. Poiché siamo nel regno dell’immaginazione, quando siamo nel contesto di un’opera d’arte, tutto ciò che tocchiamo e vediamo in quel contesto non ha attinenza con la cosiddetta realtà. Il tempo è un’organizzazione degli spazi, degli eventi, dei personaggi, uno strumento dell’intreccio. La maggior parte delle opere d’arte letterarie o cinematografiche cerca di usare il tempo come il tempo usa noi nella realtà. Basta ovviamente farci caso ed espedienti come il flash back o le visioni premonitrici rivelano subito la natura artificiosa della cronologia lineare. Ci sono artisti come Kubrick che hanno usato il tempo per raccontare la storia in modo del tutto diverso dallo standard usato. In Rapina mano armata Kubrick distrugge la linearità del tempo cronologico per raccontare meglio la storia e non per confonderci le idee. I noiosi amanti del realismo, dell’illusione suprema del realismo, non sembrano arrendersi all’idea che l’arte non abbia alcun rapporto con la realtà, pensano che tutto sommato l’acronia sia solo un gioco, un artificio messo lì tanto per divertire il pubblico con qualcosa di nuovo, di insolito, mentre ignorano che l’acronia è il modo più serio per trattare il tempo all’interno del sublime gioco dell’arte, un oggetto che non ha nulla a che spartire con la realtà e che ha tutto da guadagnare anzi ad allontanarsene sdegnata. Distruggete la linearità del tempo perché il tempo è un concetto che in arte è del tutto assimilabile al concetto di personaggio.

taxi driver scorsese tornare al cinema

I colori della città ovvero la luce. Taxi driver di Martin Scorsese affronta un tema che era di stretta attualità ai tempi: il difficile rientro nel contesto sociale dei reduci dal Vietnam. Lo fa da un punto di vista anarcoide. Scorsese è un regista che si interroga ossessivamente sullo stesso tema in ogni suo film: la violenza, la violenza vista come atto individuale, gesto anarchico e ribelle per eccellenza, l’individuo che a torto o a ragione, ispirato da follia o meno, sfoga la sua frustrazione ricorrendo alla violenza, e la violenza organizzata, la violenza delle bande armate, la violenza metaforicamente dell’istituzione. In Taxi driver indaga il progressivo sprofondare nella follia nichilista del reduce dal vietnam, un uomo completamente spaesato, tormentato dall’insonnia e da incubi spaventosi. Non sappiamo nulla di quel che Travis ha visto o fatto in Vietnam, Scorsese lascia immaginare a noi. Naturalmente su questo film è stato detto o scritto già tutto, per cui non aggiungo nulla. Mi soffermo su una cosa che mi ha colpito. Naturalmente i soliloqui di Travis quando vaga con il suo taxi nella notte newyorchese. La voce paranoica di Travis, il rallenty e le luci sull’asfalto bagnato, le luci della città. Che sembrano pennellate espressioniste. Scorsese è un regista cinefilo, un regista che conosce la storia del cinema come pochi. L’uso espressionistico della scenografia, del movimento, della luce, della voce fuoricampo in queste sequenze è naturalmente consapevole. Noi vediamo con gli occhi di Travis la città degradata che si specchia nell’asfalto lucido e nero. La sua voce è interiore. Il cinema mostra e nasconde. Come se fossimo dentro Travis noi vediamo e sentiamo. L’identificazione è totale e mette a disagio. Le parole di Travis le abbiamo sentite miliardi di volte, sono le parole di un reazionario comune, che vuol ripulire la città dall’immondizia che trabocca. Eppure benché sentiamo che c’è qualcosa di malato in quelle parole non riusciamo a prendere completamente le distanze, sentiamo empatia, confusi dalle luci delle vetrine e dei semafori, ipnotizzati dal rallenty e dalla voce di Travis perdiamo il senso di ciò che siamo, smarriamo la strada assieme a lui, non siamo semplicemente a bordo del taxi, siamo i conducenti e insieme i passeggeri, vorremmo scendere ma nello stesso tempo restiamo lì sedotti dalle luci della città, dal male che si dispiega davanti ai nostri occhi imbambolati e dalla voce di Travis. Solo alla fine del film abbandoniamo il corpo di Travis e la sua follia, ci allontaniamo piano piano, percorriamo un sentiero a ritroso, un sentiero cosparso di cadaveri e segnato dal sangue, un sentiero che però abbiamo empaticamente seguito fino alla fine.

l'albero della vita malick tornare al cinema
Lo spettatore visionario. Vi sono due modi di essere spettatori. Il modo più diffuso consiste nell’abbandonarsi al racconto, lo scopo è essere incantati dalla storia che viene raccontata sullo schermo, è un modo in un certo senso passivo, ci si identifica nei personaggi e si lascia vagare la nostra mente nei pensieri e nelle emozioni altrui. L’altro modo è quello che definirei visionario. Si va al cinema con un altro spirito. C’è nello spettatore visionario una parte dello spettatore fanciullo che vuole essere cullato dalla fiaba, ma è una riserva di piacere giocoso all’interno di un’altra modalità di visione, una modalità attiva, critica. Mentre lo spettatore normale si identifica con gli attori e i personaggi che incarnano, lo spettatore visionario preferisce identificarsi con il regista. E’ una visione più faticosa, ci vuole distacco ed empatia allo stesso tempo. Avviene così anche per un libro, ci si può completamente immergere nella storia e dimenticarsi, trascorrere qualche ora fuori da noi, oppure si può essere partecipi almeno parzialmente dei travagli dello scrittore, notare le sottigliezze stilistiche con cui ha reso più efficace una descrizione o una scena, godere della bellezza dello stile, al di là del contenuto espresso. Non tutti i film e non tutti i libri si prestano ad una tale fruizione. Solo le opere d’arte. Per questo non si deve andare a vedere L’albero della vita di Terrence Malick come se fosse un film normale. Lo si deve vedere con l’approccio artistico. Lo spettatore normale di fronte al film di Malick rimarrà deluso perché lo scopo del regista non era di affabulare semplicemente, così come lo scopo dell’arte in genere non è quello di raccontare semplicemente una storia, ma di evocare un mondo con le sue regole e le sue leggi fisiche e chimiche. La luce del mondo in cui sprofondiamo è differente, così come il tempo, tutto ciò che vediamo va ricondotto a quel mondo non al nostro. L’unico modo di godere della bellezza di questo film è diventare visionari, partecipare con distacco ed empatia, essere fuori e dentro. Entrare in comunicazione profonda con un’opera d’arte è un’esperienza trascendentale, si abbandona il proprio corpo ma si è se stessi fino in fondo, la mente, la nostra mente è presente, partecipe della passione che esplode sullo schermo. I temi del rapporto padre-figlio, cristo-dio, il tema della morte e del suo mistero ci toccano nel profondo perché non ci siamo abbandonati all’identificazione completa, ne siamo rimasti in parte fuori, ci siamo osservati esternamente come se fossimo usciti da noi stessi sentendo tutto ciò che la nostra anima pativa, i nostri sensi ingannevoli si sono sopiti per lasciare spazio solo ai nostri pensieri, ai nostri ricordi, al nostro io profondo. L’albero della vita mi ha commosso davvero, mi ha restituito un’idea di cinema che era andata perduta nella visione ordinaria di film ordinari che mi hanno lasciato vuoto.

 

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