Tornare al cinema finalmente. Perché il luogo prescelto per godere del cinema è la sala cinematografica. Tornare significa che siamo già stati tutti là, nessuno escluso. Ma ce ne siamo allontanati col tempo. Pandemia, pigrizia, mancanza di denaro. Tutte ipotesi. La mia teoria è che siamo sempre stati là ma non abbiamo più chiuso gli occhi, non ci siamo più abbandonati a quella visione estatica. Con l’occasione della riapertura delle sale dopo i tragici eventi legati alla pandemia ripubblico vecchi frammenti sul cinema perduti in qualche polveroso cassetto.

tornare al cinema - shining

 

Il corridoio e l’ignoto.

Se cerco nella mia memoria visiva una delle prime immagini che hanno segnato la mia retina, mi torna alla mente Danny sul suo triciclo, mentre percorre a tutta velocità i corridoi deserti dell’Overlook Hotel in Shining di Stanley Kubrick. Se devo dare una qualche giustificazione intellettuale a questo frammento di memoria tornato dal passato penso alle paure che si provano nell’attraversare qualcosa: un corridoio è insieme un percorso verso qualcosa e una promessa di possibili insidie o di piaceri, le porte che si aprono sul corridoio sono possibilità, e le possibilità possono avere segno positivo o negativo, l’insidia nel corridoio è insita anche nella natura stessa della struttura, dove conduce il corridoio? Questa è la domanda che inquieta le menti più assennate e tormentate. Il corridoio è assimilabile ad un tunnel se non fosse per le porte che si aprono o chiudono su di esso. Il corridoio è una struttura aperta in cui l’inizio e la fine possono essere coincidenti, un cerchio al cui interno ed esterno vive e pulsa un mondo ignoto e pauroso.
Il gesto e la ripetizione. Charles Foster Kane è il protagonista di Citizan Kane (Quarto Potere) di Orson Welles. L’immagine più indelebile [per me] è verso la fine. Kane si aggira per il suo sterminato, barocco, palazzo, struttura cumulativa per eccellenza, tutto ciò che ha toccato la vita di Kane trova qui accoglienza. I lunghi corridoi sono disseminati di statue e specchi. Kane passa tra due specchi che si riflettono. La sua immagine viene moltiplicata all’infinito. E’ una metafora del cinema, ma è anche una metafora dell’essere e del suo mistero. Kane è inafferrabile, la sua identità è un enigma indecifrabile, l’immagine moltiplicata dagli specchi contrapposti sancisce la perdita di una possibile unità, Kane è un’immagine frammentata all’infinito, la moltiplicazione di sé, delle sue possibilità, impedisce l’individualizzazione. L’immagine del cinema è insieme gesto e ripetizione. Il gesto è la cosa più singolare che esista ma il cinema la moltiplica e la replica all’infinito. La visione è nella possibilità infinita, la ripetizione costante e precisa, assoluta e dolorosamente identica. Il gesto, il sapore dell’unicità che di solito leghiamo ad esso viene vanificato dall’ossessività della ripetizione.

tornare al cinema - arancia meccanica
Lo sguardo in macchina.

Alex in Arancia meccanica di Stanley Kubrick. Alex è seduto al Korova milk bar assieme ai suoi drughi. I suoi occhi deliranti sono nei nostri. Ma non è così. Il movimento di macchina, uno zoom con carrello indietro, svela un nuovo senso dell’immagine. Alex guarda altrove, i suoi occhi sono persi in qualche fantasticheria. Lo sguardo in macchina ebbe alle origini una funzione eminentemente esibizionistica, era ridotta a mero gioco, lo scherzo di un regista che non prendeva troppo sul serio il suo lavoro o probabilmente non ne aveva ancora del tutto coscienza, quel tipo di coscienza che invece ebbero i cineasti nei decenni successivi. In seguito lo sguardo in macchina ebbe la funzione di rivelare la finzione cinematografica, era un modo per dire, ti sto raccontando qualcosa, quel che vedi è solo quello che io decido di mostrarti. In alcuni cineasti di scuola marxista era uno dei modi per svelare al pubblico il meccanismo della finzione, distruggere il senso di realismo a cui il cinema condanna la visione, per sua natura, per svelare il processo industriale alla base. Lo sguardo in macchina è parente di quel rivolgersi al pubblico di alcuni attori di commedia, coinvolgere il pubblico nel meccanismo narrativo fino a farne un personaggio vero e proprio. Ma al cinema non funziona, lo schermo è più lontano del palcoscenico, lo schermo è solo un riflesso, la luce che dà vita alle immagini sullo schermo è solo un mezzo, l’esistenza dell’opera è altrove, persa in uno spazio incommensurabile, troppo distante e troppo vicino, è lo spazio dell’immaginazione onirica. Come i sogni il cinema è più reale del reale, difficile distinguerlo dalla verità. Il luogo del cinema è in una dimensione a noi preclusa. Lo sguardo in macchina inquieta e disturba perché ci arriva da un altro mondo, percepiamo qualcosa che ha il sapore di un tentativo di frode, un inganno innocente, un modo per sottolineare la distanza e l’incomunicabilità tra il mondo di quelle immagini e il nostro. Kubrick in questa elaborazione dello sguardo in macchina, nel suo procedere per disinganni, per disillusioni, gioca con i nostri desideri e si fa beffe delle nostre illusioni. No, Alex non guarda noi, i suoi occhi che ci apparivano minacciosamente diretti verso noi sono persi in altro, lo spettatore nel mondo di Kubrick è dimenticato, remoto.

tornare al cinema - l'atalante
La perdita e l’immagine.

Nell’Atalante di Jean Vigo c’è una sequenza famosa che appariva nella sigla di Fuori Orario di Enrico Ghezzi, un programma che ha avuto il merito di formare una nuova generazione di cinefili (sottoscritto compreso). Il giovane traghettatore si tuffa nelle acque torbide della Senna e nuota disperato nell’immagine fluttuante del suo amore perduto. L’immagine dell’amata fluttua nell’acqua come un fantasma. Il giovane annaspa nel tentativo di afferrarla. Poi torna a galla con i polmoni scoppiati. L’immagine dell’amore. Confessate a voi stessi che quando pensate al concetto dell’amore cercate un’immagine che lo condensi e lo renda vivo ai vostri occhi, lasciate gli stupidi palpiti, i battiti cardiaci ai banali poetucoli della domenica, alle casalinghe che cuociono i loro cervelli di fronte o di lato ad un televisore e ai cardiologi. L’immagine quale che sia. L’immagine del vostro amore. Il senso della perdita sta tutto nel suo stato di immagine, fantasma di un’idea che un tempo era sangue e corpo e sesso. Il cinema è la ricerca di dare un senso a qualcosa trovando o costruendo o inventando (trovare nella sua espressione più felice) immagini in movimento, dove il movimento non è il banale succedersi dei fotogrammi ma è anche la metamorfosi di senso che l’immagine subisce nel fluire della visione, senso che muta sotto i nostri occhi per merito dei nostri occhi nonostante i nostri occhi. Il desiderio di fare di quell’immagine un corpo da toccare e amare. Il cinema è il desiderio allo stato puro. O forse è meglio dire la nostalgia del desiderio. La lotta nell’acqua con l’immagine del corpo ormai svanito dell’amata rappresenta questa forma di desiderio che lo spettatore cinematografico vive nella sala buia testimone di un dramma collettivo eppure così intimo. Lo smarrimento del giovane barcaiolo è lo stesso che provo io quando la visione si interrompe, le luci della sala si riaccendono e ricomincia la vita.
L’ambiguità dello sguardo. C’era una volta il west di Sergio Leone. Potrebbe essere anche questo il titolo di un film, un film che metta in fila tutte le immagini inventate da Sergio Leone nei suoi film western. In questo film in particolare, C’era una volta il west, la scena quasi all’inizio del massacro nella tenuta di Acqua dolce. Gli spari dal nulla. Le persone cadono uccise dai colpi precisi. Solo un bambino sopravvive. Esce dalla casa e guarda i suoi famigliari a terra, corpi senza vita. La musica di Morricone si leva solenne. Dei cavalieri dalle lunghe palandrane gonfiate dal vento escono dai loro nascondigli. I lunghi fucili serrati nelle mani. Escono lenti e con passo inesorabile avanzano verso il superstite mentre la musica cresce. E’ una scena epica. I cavalieri si fermano di fronte al piccolo bambino impaurito. Il cavaliere al centro è Henry Fonda. Per il pubblico americano è uno shock. Henry Fonda era il buono per eccellenza. Non è possibile che lui abbia sterminato la famiglia di quel bambino. Fonda guarda il bambino e un sorriso affiora sulle sue labbra. Gli occhi bellissimi non tradiscono alcuna intenzione malvagia. Tutti noi sappiamo che Fonda non sparerà al bambino. E invece con lo stesso sguardo buono e lo stesso sorriso che tante volte abbiamo ammirato nei film precedenti Fonda ammazza il bambino. Leone compie un duplice sgarbo. Uno sgarbo allo star system hollywoodiano che tra sue le regole auree aveva la rigida manichea divisione tra i ruoli di buono e cattivo. Una star del cinema non può essere un cattivo. L’America non può avere il volto di un cattivo. L’altro sgarbo è nei confronti di tutti. Lo sguardo di Henry Fonda, la limpidità azzurra del suo sguardo, non può essere quello di un assassino eppure lo è. L’immagine cinematografica vive dell’ambiguità della sospensione del giudizio su quello che vediamo prima che un movimento tradisca il senso e lo rovesci. Gli occhi buoni diventano gli occhi del malvagio e viceversa.

tornare al cinema - psyco
Lo sguardo e il desiderio.

In Psyco c’è un’immagine che mi turba. Non la sequenza della doccia, neppure gli animali impagliati. E’ l’occhio di Bates che spia la donna che si spoglia dal piccolo buco occultato dalla tappezzeria. L’occhio che si posa sulla piccola apertura. L’occhio che brama di vedere oltre la parete. L’occhio ansioso di scrutare nascosto nel buio. Hitchcock ha sempre tenuto a inglobare nel suo cinema di genere un discorso sullo sguardo voyeuristico. Il piacere della visione protetti dal buio, nascosti da un’ombra che rende indistinta la realtà attorno a noi. Somiglia molto a ciò che succede a tutti noi quando sediamo nelle poltrone di un cinema. Di questo processo di identificazione tra Bates e gli spettatori in questa scena Hitchcock era ovviamente molto consapevole. Lo cerca e lo trova con nostra e sua soddisfazione. Tutti noi siamo resi complici dal maestro inglese. Nella sequenza di immagini ci sono diversi punti di vista. Un punto di vista diciamo esterno che riprende di lato l’occhio di Bates che si posa sul buco. Il punto di vista soggettivo di Bates (e nostro) che vede l’oggetto del desiderio dello sguardo nostro e di Bates, cioè il corpo nudo della donna che si appresta a fare la doccia. E il punto di vista dell’oggetto della visione che ignara si lascia guardare e toccare dal suo e dal nostro sguardo. C’è un’inquadratura che mostra il foro dalla parte della donna. Ma non è lo sguardo della donna che è del tutto inconsapevole di essere guardata e desiderata. Anche se sente qualcosa che la tocca, come se lo sguardo fosse una cosa tutt’altro che slegata dalla sensibilità corporea. E’ uno sguardo che rappresenta un nostro punto di vista. Il nostro sguardo è insieme lo sguardo malato di Bates, il suo desiderio di possesso dell’immagine, e lo sguardo oggettivo distaccato del narratore, cioè quel soggetto invisibile che ci mostra cosa dobbiamo guardare per cucire insieme i pezzi della storia, e lo sguardo della vittima, e infine quel tipo di sguardo altro che dovrebbe consentirci di non identificarci completamente nello sguardo malato di Bates. Lo sguardo che ne deriva è uno sguardo che desidera tutto e che al contempo se ne vergogna e che sente bruciare su di sé questo sguardo. L’esperienza della visione è qualcosa che tocca i nostri corpi perché tocca le nostre passioni le nostre pulsioni i nostri desideri più inconsci. Il cinema è il desiderio nella sua forma più violenta e salvifica. Violenta perché il desiderio di guardare tutto è profonda e repressa, salvifica perché ci condanna e ci assolve in virtù della composizione dello sguardo.

Nelle prossime settimane pubblicherò altre due puntate di Tornare al cinema, spero anche di tornare a scrivere più assiduamente sul blog.

 

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