Per celebrare la notte di Halloween questa volta voglio fare qualcosa di diverso. Vi presento un racconto horror inedito, scritto qualche mese fa. E’ un racconto horror di vecchia scuola.  Sulla seduzione del male e che spiega anche quanto sia rischioso identificarsi. Buona lettura e buon Ognissanti.

la scala nel buio racconto horror di nicola pasa

disegno dell’artista John Kenn Mortensen

Osservò la tazza di caffè, forse un po’ troppo a lungo. Il fumo si alzava in spirali dense, prima di svanire. Tornò in sé sbattendo le palpebre ma Nadia gli fece la fatidica domanda:
-Tutto bene?
Ogni santo giorno, da quel maledetto giorno, qualcuno gli aveva fatto quella stessa domanda. Sua madre, suo padre, i suoi colleghi, il suo caro amico di infanzia Walter, la migliore amica di sua moglie (ma non sua) Alice, il suo barista, il suo benzinaio, insomma qualsiasi persona con cui avesse a che fare nella vita di tutti i giorni. Le circostanze erano state diverse, i momenti della giornata, l’atmosfera, i luoghi erano sempre stati diversi, solo il tono era stato il solito. Quel tono paternalistico, con quell’accento di preoccupazione che insieme agli occhi mai puntati contro, comprensivi, connotavano la figura della pietà, della commiserazione.
-Sì, tutto bene, perché?
La sua risposta era sempre stata quella e alla sua ulteriore domanda, seguiva di volta in volta un sorriso, una pacca sulle spalle, un cambio repentino di discorso.
E tutte le volte l’unica risposta possibile se l’era tenuta dentro, a fatica, ingoiando il rospo intero, con tutte le sue spine:
-No, non va bene per niente, non va bene proprio un cazzo.

-Certo, scusa stavo pensando che oggi mi dedicherò a sgomberare la cantina.
Sorrise, Nadia, le mani sui fianchi e la testa inclinata, lo guardò come se dicesse un’eresia.
-Stai dicendo sul serio?
-Lo so, lo so, sono anni che lo dico ma oggi sento che devo farlo, sai in questi anni sono stato assorbito dal lavoro, ma in fin dei conti ora non ho più quella scusa. Fece una risata autoironica. L’autoironia è sintomo di lucidità mentale, aveva letto in qualche rivista.
Nadia sorrise comprensiva e gli mise una mano sulla spalla. Lui la sentì pesante, e calda, troppo calda. Si scostò perché capisse che gli dava fastidio.
-Non c’è nessuna fretta, abbiamo aspettato anni, fai quello che ti senti.
Annuì stancamente, non sopportava quel tono, quella comprensione, lo faceva sentire più inutile di quanto già si sentisse.

Da quando l’azienda aveva deciso di metterlo in anno sabbatico per esaurimento nervoso, la gente con lui si comportava come con quei poveretti che frequentano il centro mentale. Non si fa riferimento a loro come matti o psicopatici, ci si limita a scuotere la testa dicendo: non sta bene o è molto giù. Erano stati tutti molto generosi con lui, tolleranti, affettuosi, avevano cercato di non farlo sentire inutile, o un peso, col solo risultato di averglielo fatto pesare il doppio. Avevano sempre la parola giusta da dire, la parolina magica che lo risollevava all’istante, almeno così credevano.

Cristo Santo vorrei solo che mi trattassero come una persona qualunque, sono sempre io, non sono cambiato, ho avuto un piccolo esaurimento, ma può capitare, voglio dire c’è gente che sbrocca sul serio, che imbraccia un fucile e fa fuori un sacco di gente, io mi sono limitato a mandare a fare in culo un cliente.
Questo raccontava ogni volta alla sua psicologa, che si limitava ad ascoltare dondolando la testa, consultando l’orologio e poi trascrivere rapida le sue annotazioni su un taccuino. Ogni volta cercava di sbirciare cosa diavolo scrivesse ma lei lo inclinava in modo che fosse al di là del suo sguardo. Così lui lasciava cadere gli occhi sulle sue cosce polpose, risaliva fino alle mutandine di pizzo trasparenti, che talvolta vedeva quando la dottoressa cambiava posizione sulla sedia. Era un bel vedere, l’unica nota lieta e produttiva di quelle inutili e spossanti sedute, a cui l’azienda lo aveva obbligato.

L’unica cosa che gli mancava del lavoro era la vista dal suo ufficio, le scollature della receptionist Patrizia, con quelle tette enormi che sembravano far esplodere il vestito, e i pranzi al bar sotto l’azienda, dove facevano deliziose pizze. A casa però aveva troppo tempo libero, si annoiava mentre sua moglie era al lavoro e sua figlia a scuola. I primi tempi si era limitato a bighellonare per la casa in vestaglia poi, sotto suggerimento della psicologa, aveva cominciato a vestirsi normalmente. Così aveva gironzolato per casa vestito di tutto punto. Invece che sollevarlo lo aveva fatto sentire ridicolo. La pagliacciata terminò quando Nadia, trovando delle macchie di sugo sui vestiti, gli consigliò di mettersi una tuta. Così ora bighellonava in tuta e scarpe da tennis.

Cominciò pigramente a fare qualche lavoretto in casa, sostituire lampadine, riparare la doccia, montare qualche mobiletto salva-spazio. Questo non riempiva le sue giornate noiose ma almeno lo faceva sentire più utile in casa.
Poi scoprì la cantina. Per anni ne avevano fatto a meno perché era troppo umida e scomoda, si doveva scendere al piano terra e prendere due rampe di scale. La porta della loro cantina era l’ultima, in fondo a un corridoio stretto che sapeva di muffa.
Era un locale abbastanza grande, per anni l’avevano usata come discarica. Il resto preferivano tenerlo in casa, in una piccola stanza che fungeva anche da lavanderia.
Ora che aveva tempo però magari poteva sgomberarla, almeno da quelle cose lasciate dai precedenti condomini, e renderla più confortevole. Poteva provarci.

Nadia uscì vestita di tutto punto, gli diede un bacio e gli raccomandò di non affaticarsi troppo. Lui l’aveva rassicurata e poi l’aveva seguita con gli occhi mentre scendeva le scale e gridava a Grazia di affrettarsi. La ragazza gli sfrecciò accanto, investendolo con il profumo dello shampoo, con cui ogni mattina frizionava i suoi lunghi capelli. La salutò evitando di guardarla troppo a lungo, era davvero una bella ragazza e faceva girare la testa a tanti. Per i suoi gusti si vestiva troppo succintamente, e aveva modi un po’ troppo maliziosi, ma era normale dopotutto: era piena di ormoni e voglia di vita. Una volta aveva sorpreso un suo amico tastarle il culo e per poco non era sceso dall’auto per dirgliene quattro. Lei l’aveva rimesso al suo posto da sola e si era tranquillizzato. Negava dentro di sé di aver mai rivolto a quelle giovani curve uno sguardo che non fosse paterno, ma in qualche parte ben riposta della sua coscienza sapeva di aver talvolta indugiato con gli occhi, in modo tutt’altro che innocente, su quel fondoschiena messo in risalto dai corti pantaloncini attillati.

Scese in cantina dopo essersi cambiato e messo addosso vecchi abiti da lavoro. Si sarebbe sporcato parecchio trafficando laggiù. Chissà quanti insetti schifosi o peggio ancora topi, grassi topi squittenti. Rabbrividì, gli avevano fatto sempre schifo.
Cominciò a spostare le casse verso l’ingresso, cercò di lavorare in modo da lasciarsi sempre una via di fuga, nel caso venisse aggredito da un esercito di topi o ragni giganti. Sorrise nervosamente. Era buio e freddo laggiù, nonostante la primavera inoltrata. La lampadina nuda, che oscillava dal basso soffitto, illuminava a malapena il centro della stanza. C’erano angoli che rimanevano al buio, lì si annidavano quelle bestie schifose. Lavorò senza interruzioni per un’ora, poi si appoggiò a una delle casse e si fece una birra. La tracannò tutta, asciugandosi con la manica sudicia della camicia, poi riprese. C’aveva preso gusto, voleva finire di spostare le casse per cominciare a pulire nella zona più lontana dalla porta, dove sicuramente c’era il grosso dello sporco. L’ultima cassa si rivelò la più pesante di tutte. Chissà cosa c’era dentro. Nelle altre c’erano vestiti tarmati, libri, riviste e ciarpame vario. Là dentro c’erano cose più pesanti, forse stoviglie. Stava per aprirla, quando la luce oscillò, illuminando lo spazio nascosto dalla cassa. C’era qualcosa sul pavimento. Sfilò la torcia che teneva infilata nei pantaloni e la accese. Si avvicinò e illuminò una vecchia botola. Vecchia di quanto? Sorvolò. Non aveva maniglie. La tastò in lungo e in largo, non c’erano appigli. Che razza di botola poteva essere se non si poteva sollevare?
Doveva sfondarla, non c’erano altre soluzioni. Si guardò attorno, non c’era nulla che poteva essergli utile. Tastò con il piede il legno, sembrava molto vecchio. Come se appartenesse a un’epoca diversa dall’edificio. La cosa lo fece sorridere, che assurdità. Troppe ore passate da solo.
Tornò in casa e prese un martello dallo sgabuzzino. Prima di scendere di nuovo si mangiò un sandwich al formaggio, lavorare gli aveva messo fame. Mentre mangiava guardava fuori, era bel tempo ma il sole talvolta era velato da nubi sottili. Forse in serata avrebbe cominciato a piovere. Si chiese se Nadia avesse preso l’ombrello.

La botola si ruppe con poche martellate. Il legno cadde in quello che sembrava un pozzo profondo a giudicare dal buio. Con la torcia illuminò i pioli di una scala che scendeva nell’oscurità, la luce si perdeva oltre l’ultimo piolo, non riusciva ad andare oltre, arrestandosi come se fosse arrivata a un limite invalicabile.
Che cosa c’era là sotto? Perché non gli avevano detto nulla i vecchi proprietari che gli avevano venduto la casa? Gli stessi che avevano sistemato quella cassa come se volessero occultare la botola. No, non aveva alcun senso, probabilmente era l’esatto contrario, volevano che la scoprisse da solo. Rimuginò a lungo con la testa sospesa sul buio, finché non si decise a scendere. Non mancava molto a mezzogiorno, aveva un paio d’ore prima che Nadia e Grazia fossero di ritorno. Aveva tutto il tempo. Si infilò il martello nei pantaloni, caso mai vi fossero topi là sotto particolarmente aggressivi, la torcia in bocca e cominciò a scendere piolo dopo piolo. Scese di parecchi metri, tanto che vide lontana, sospesa su di sé come una piccola luna, la botola illuminata dalla lampadina. Stava scendendo in un posto dove il buio si poteva tagliare col coltello. Pensò di essere in un tunnel ma non percepiva le strette pareti, più scendeva e più aveva la sensazione che là sotto vi fosse uno spazio immenso. Sentì uno spostamento d’aria, c’era qualche condotto d’areazione. Finalmente toccò il fondo. Scese cautamente dalla scala mettendo entrambi i piedi su un terreno argilloso ma secco. Roteò la torcia tutt’attorno. Con sua enorme sorpresa il buio sembrava inscalfibile. La luce non riusciva a penetrare. Scherzi della mia mente, devo essere proprio stanco, pensò. Tastò alla cieca ma le sue mani brancolarono nel vuoto. Con timore si allontanò di pochi passi dalla scala. Gettò un’occhiata in su e vide il piccolo rettangolo luminoso, come una stella polare lo avrebbe guidato al ritorno. Che idiozia, pensò, non sto mica attraversando un deserto. Camminò ancora, facendo un passo alla volta e vide la scala svanire. Colto dal panico tornò indietro. Alla cieca ritrovò la scala. Prese fiato, per un attimo aveva pensato di perdersi nel buio, là sotto, camminare per sempre in quella vastità di cui il buio era padrone assoluto. Pensò di tornare con una corda. L’indomani sarebbe tornato e si sarebbe legato alla scala, avrebbe avuto una torcia potentissima e avrebbe esplorato l’oscurità. Diede un’ultima occhiata prima di salire, con le orecchie tese percepì qualcosa, era molto distante ma si avvicinava veloce, un fruscio che diventava sempre più chiaro. Risalì in fretta la scala, ma per lui troppo lentamente, la botola sembrava lontanissima. Il sussurro nelle tenebre era vicino, sentì uno spostamento d’aria che lo fece barcollare sulla scala, riprese il controllo e finì gli ultimi pioli. Si ritrovò sul freddo pavimento della cantina, le gambe ancora oscillanti nel vuoto. Rotolò da un lato per metterle al sicuro. Con sollievo aspirò l’aria viziata e contemplò la squallida lampadina oscillante. Solo ora notò che sembrava un cappio.

Nadia fece tardi. Grazia era già rientrata da un pezzo quando la vide scendere dall’auto del suo collega Arturo. La osservò, la vide sorridere a quell’uomo in un modo strano. Diverso da quello che si rivolge in genere agli amici. Lei non se ne accorse ma, una volta scesa, lo sguardo dell’uomo rimase sul suo culo, ben evidenziato dalla gonna che le cadeva appena sopra le ginocchia. Probabilmente quando era seduta al suo fianco, Nadia aveva inconsapevolmente (ma quanto inconsapevolmente?) offerto una buona veduta delle sue cosce, ancora toniche, al collega belloccio. Prima di entrare nel palazzo, lei si voltò un’ultima volta a guardare il collega, che ripartì sgommando. Era impossibile dalla finestra capire il tipo di sguardo che gli aveva dedicato. Tuttavia lo immaginò, digrignando i denti.
Aveva contemplato tutto quel quadretto senza sentire nulla, nessuna fitta di gelosia, se non una rabbia sorda che montava dentro pian piano. Prima che Nadia comparisse sulla soglia dell’appartamento, tirò la tendina della finestra della sala, e si rimise a leggere sul divano, come se niente fosse.
Nadia era allegra, lasciò una borsa sul tavolo della cucina e poi come suo solito corse a salutarlo, ebbra di vita.
-Per cena cosa ti andrebbe, caro?
Lui alzò gli occhi dal libro, scocciato, ma cercando di dissimulare il fastidio.
-Perché non ordiniamo la pizza?
Lei sembrò delusa.
-Ho comprato delle bistecche e poi pensavo di fare delle patate al forno come piacciono a te.
Lui posò il libro e serafico le rispose:
-Se hai deciso TU la cena per quale cazzo di motivo mi chiedi cosa voglio mangiare per cena?
Lei sembrò incredula, sgranò gli occhi.
-Ma caro, perché mi rispondi così? Era un giochetto per dirti che volevo fare il tuo piatto preferito: bistecca al sangue e patate al forno.
Ci era davvero rimasta male, e ciò lo divertì. Era stato il suo scopo ferirla.
-Oh mi spiace di averti rovinato il giochetto, ora perché non ti levi dai coglioni e mi lasci finire il libro?
Lei guardò il libro sconcertata, poi lo prese e lo raddrizzò.
-Almeno leggilo dal verso giusto, stronzo.
Seccata lo lasciò da solo e andò a salutare Grazia, fingendo che non fosse successo niente.

Non parlarono per tutta la sera, Grazia non ci fece nemmeno caso presa com’era dal messaggiare alla sua amica del cuore. Lui non pensò nemmeno di dirle della botola, mangiò la bistecca e poi finita la cena se ne andò sul divano a vedere la televisione. Nadia invece se ne andò a letto, aveva un libro sotto braccio, e il suo telefonino.
Guardò distrattamente un film di guerra. Pensava a tutto quel buio che c’era sotto i loro piedi. Più tardi si alzò per andare in bagno. Al ritorno, percorrendo il corridoio, captò la voce di Nadia. Si avvicinò alla porta della loro camera da letto e ascoltò. Nadia era al telefono con qualcuno, parlava sottovoce. Catturò qualche brano della conversazione. Nessuna delle parole pronunciate lo toccò in qualche modo, si allontanò e andò in camera di Grazia. Dormiva profondamente con le cuffie ancora in testa, il suo lettore mp3 era ancora acceso, un bagliore blu sotto il lenzuolo, sentì un brusio di fondo. Non lo spense. Sua figlia era stesa su un fianco, la bocca leggermente dischiusa da cui colava un filo di saliva. La coperta la copriva solo dalla vita in su. Contemplò le sue gambe aggraziate e le striminzite mutandine rosa orlate di pizzo bianco, la morbida curva delle natiche. Immaginò di toccarla, poi, sconvolto, prese la coperta e la tirò per nasconderla al suo sguardo. Andò in bagno e si fissò allo specchio: aveva uno strano ghigno che non riusciva in alcun modo a togliersi.

Al mattino Nadia uscì di corsa, lo salutò senza particolare calore. La vide salire in macchina del collega. Grazia gli chiese se avessero litigato. Lui scosse la testa.
-Tua madre sta attraversando un periodo stressante, lavora anche per me, devi capirla, poveretta.
Ma le sue parole suonarono canzonatorie, chissà se Grazia se n’era accorta.
Sua figlia uscì dopo averlo baciato sulla bocca. Lui l’aveva tenuta per un attimo tra le sue braccia, per godersi il tocco morbido del suo seno contro il suo petto, poi l’aveva lasciata andare, fissandola a lungo.

Barcollò verso il divano e si lasciò cadere. Era tentato di tornare alla cantina, a quella strana botola e al buio così fitto che nascondeva, ma qualcosa lo teneva lontano, con la stessa forza con cui lo chiamava. Guardò la televisione tutto la mattina, staccandosi dal divano solo per prendersi da bere o mangiucchiare qualcosa. Nadia gli telefonò a pranzo, dicendo che sarebbe tornata in serata, aveva altro lavoro da sbrigare e poi qualche commissione da fare al centro commerciale, Grazia invece andava da una sua amica. Si sarebbero viste più tardi al centro commerciale per tornare a casa insieme.
Era solo tutto il giorno. Si sentì depresso, ma anche sollevato. La solitudine era una lurida puttana, ti toglieva lo stress di dover avere a che fare con persone odiose (ma che dico?) ma ti lasciava da solo con i tuoi fantasmi. Era terribile. Era delizioso.
Fece un salto un cantina e si affacciò dalla botola, i suoi occhi cercarono di indagare l’oscurità ma non c’era alcuna fonte di luce là sotto, come in una grotta. Aveva sentito di una coppia di speleologi intrappolata sotto la montagna, non lontano dalla loro cittadina. Erano stati là sotto per tanto tempo, li avevano tirati fuori in condizioni disperate. La moglie era morta pochi giorni dopo, di stenti e per ferite procurate da graffi e morsi. Anche il marito aveva lacerazioni simili, giaceva privo di conoscenza in ospedale. Una squadra della protezione civile era scesa per trovare la bestia, forse un orso, che li aveva attaccati. Ma poi avevano scoperto che non c’era nessun orso. I due erano impazziti là sotto, tanti giorni al buio senza cibo e senza luce. Quelle ferite se l’erano procurate lottando. Avevano tentato di mangiarsi. Il marito uscito dallo stato di torpore aggredì un’infermiera, strappandole una guancia e rovinandole il volto per sempre. L’episodio all’epoca lo aveva raggelato. Ora lo fece eccitare. Pensò al sangue, al sapore, alla carne. Poi tornò in sé. Sentì una corrente fredda, si strinse la vestaglia. Tornò di sopra.

Il resto della giornata lo passò da sbronzo, aveva trovato una bottiglia di rum e se l’era scolata sul divano. Non sentì rientrare Nadia e sua figlia. Lontano, lontanissimo, una voce lo chiamava, piano piano la voce crebbe di intensità fino a spaccargli le orecchie. Si svegliò di colpo e nella nebbia vide Nadia infuriata che gli sbraitava addosso. Aveva le mani sui fianchi e indicava la bottiglia vuota di rum. Lui aveva solo un mal di testa terribile e voglia di vomitare, ma implorò perdono, balbettando pietosamente. Nadia sembrava disgustata, Grazia osservava divertita dal corridoio.
Si ficcò sotto la doccia, cercando di farsi passare la sbronza e il rancore che provava per sua moglie. Quando tornò da loro cercò di essere gentile, Nadia sembrava preoccupata, non parlava e teneva gli occhi bassi. Si rivolgeva solo a Grazia, la stronza. Si mise a tavola con loro ma non toccò nulla, la sola vista del cibo gli procurava convulsioni allo stomaco. Le due donne smisero di parlare tra loro e senza degnarlo di attenzione,m finirono di mangiare, in silenzio. Lui si scusò e si allontanò. Se ne andò dritto a letto.
Qualche ora dopo sentì Nadia scivolargli accanto. Gli venne vicino, sembrò pentita di averlo trattato con tale freddezza. Lui sentì il calore del suo corpo e la morbidezza del suo seno nudo contro la schiena. Ma non si eccitò, forse lei voleva provare a fare l’amore, dopo tanto tempo. Perché? Forse si sentiva in colpa, forse aveva combinato qualcosa col collega, si era lasciata andare, aveva fatto un po’ la puttana. Si irrigidì e si allontanò da lei. Pensava che avrebbe dovuto punirla, picchiarla duramente per come lo aveva umiliato davanti a sua figlia. La sentì girarsi sull’altro fianco, aveva gettato la spugna. Sogghignò e poi sprofondò in un sonno profondissimo.

Si svegliò tardi, Nadia e Grazia erano già uscite da un pezzo. Si sentì meglio, nessun cerchio alla testa. Sua moglie gli aveva lasciato la colazione. Non la toccò. Aveva solo un’idea in testa e si vestì per metterla in atto.

Trovò una lunga corda da campeggio e tornò in cantina. Al posto del martello aveva un grosso coltello da cucina, per precauzione. E oltre alla torcia aveva anche pile di ricambio che aveva messo in tasca. Si mise la corda attorno al collo, facendola passare sotto l’ascella, e poi scese. Giunto all’ultimo piolo sfilò la corda e ne assicurò un’estremità alla scala. L’altra estremità la lego stretta attorno alla vita. In questo modo si sarebbe potuto allontanare quanto voleva, la corda gli assicurava 20 metri di autonomia. Non pensava che l’avrebbe usata tutta, non poteva essere così grande lo spazio là sotto. Si era convinto che l’idea che si era fatto era dovuta alla suggestione del buio fitto. Avrebbe toccato le pareti, probabilmente rivestite di pece o altro materiale che assorbe la luce. Ne era sicuro. Anche se non sapeva a quale scopo potessero aver fatto una simile stanza. Poi però gli venne in mente che poteva essere un vecchio rifugio contro i bombardamenti, la teoria fu così convincente che smise di avere quell’assurda, immotivata, paura. Si allontanò pieno di fiducia dalla scala, srotolando la corda che teneva in mano. Presto fu lontano, almeno 10 metri a giudicare dalla corda che gli rimaneva. Le pareti non c’erano. Il buio era profondo, gli sembrò di impazzire. Di nuovo quella sensazione di vastità incommensurabile lo sopraffece. Sentì uno strattone alla corda, tremò tutto. Si guardò indietro, vide la corda tesa. Era finita, 20 metri di corda. E ancora davanti a sé gli sembrava che ci fosse ancora spazio, tanto spazio, troppo. Calcolò la posizione della cantina e pensò di essere finito oltre le fondamenta del palazzo. Sembrava impossibile ma era così. Doveva essere dall’altra parte della strada, sotto il palazzo di fronte. Pensò di compiere un cerchio per tracciare una sorta di perimetro. Tendendo la corda tesa camminò lateralmente fino a compiere un giro di 360 gradi. Là sotto c’era un’area di almeno 40 metri di diametro. Un campo da calcio. Gli occorreva una corda più lunga, pensò, almeno 100 metri. Tornò indietro alla scala riavvolgendo la corda. Pensò con un brivido alla possibilità che qualche essere informe reggesse la corda e lo stesse trascinando sempre più lontano, nel buio, abbastanza lontano dalla scala perché non potesse sfuggirgli e una volta preso… Con sollievo vide la scala, era ricomparsa di colpo, come se il buio si fosse ritratto apposta, come un’onda di marea che ritirandosi fa riapparire uno scoglio a lungo sommerso, per permettergli di tornare in superficie a fare quel che doveva fare. Di nuovo qualcosa di immenso passò accanto, il sussurro gli accarezzò i capelli. I brividi lo fecero trasalire e per poco non perse l’equilibrio, rischiando di cadere nel buio. Un sorriso sinistro comparve sulla sua bocca mentre risaliva con fatica la scala. La cosa immensa si allontanò.

Quando ricomparve sudato e stravolto trovò Nadia e Grazia in casa, sembravano preoccupate, sconvolte. Gli chiesero dove era stato. Lui seccato disse che era stato a sgomberare la cantina e non si era accorto del tempo trascorso. Nadia gli aveva mostrato l’ora: erano le 4 del pomeriggio. Quanto era stata là sotto? A lui era sembrata appena un’ora, possibile che nel buio il tempo trascorresse diversamente?

Nei giorni seguenti non scese in cantina. Era tornato a gironzolare per casa senza fare nulla. Era sporco, trascurato ma non gli importava. Nadia era fredda, si dicevano il minimo indispensabile. La vedeva rientrare sempre più tardi. Un pomeriggio tornò con il trucco sfatto e una spallina del reggiseno rotta. La spiò mentre si cambiava, vide che non aveva le mutandine, le teneva nella borsetta. Aveva scopato con il collega in macchina, non si era nemmeno tolta la gonna, come una puttana. Si era immaginato la scena, aveva sorriso. Poi era andato in camera di Grazia. Era seduta a studiare in mutandine e reggiseno. Immaginò di andarle dietro e posarle le mani sulle spalle, poi scendere ai piccoli seni sbocciati, accarezzarli e poi torcere i capezzoli rosa, facendola urlare. Lei si sarebbe voltata spaventata. Avrebbe visto lo strano sorriso sul volto di suo padre. Lui si sarebbe slacciato i pantaloni e ordinato di chiudere la porta della stanza. Lei avrebbe ubbidito da brava bambina. Trasalì nel pensare queste cose, si vergognò per la tremenda erezione.

Tornò nella cantina. Erano troppi giorni che non lo faceva. Si calò senza corda, e camminò finché non fu stanco. Là sotto era davvero immenso, un grande spazio cieco, forse infinito. Nel silenzio assoluto i pochi suoni venivano ingigantiti. Qualcosa di enorme e vasto solcava quel mare di tenebre. Riusciva a percepirlo. Ne era attratto e insieme spaventato. Quando lo sentì arrivare, preso dal panico, corse come un pazzo e sbatté contro la scala. Era più vicina di quanto avesse pensato.

Tornato in casa non trovò nessuno. C’era un biglietto di Nadia, diceva che avrebbe tardato per cena, straordinari in ufficio. Grandi scopate a casa del collega, pensò lui. Grazia invece era andata a studiare da una sua amica.
Per nulla sorpreso si mise a dormire sul divano, fu svegliato dal suono del campanello. Forse la puttana che rientrava, pensò o la puttanella junior, pensò all’ultima notte con gusto, ai suoi occhi spaventati mentre la prendeva, torcendole un braccio. Aveva cercato di non lasciare segni.
No, era la migliore amica di sua moglie Alice, ammogliata a quel noioso Mario, capoufficio di Nadia. La guardò e capì subito che era a conoscenza delle scappatelle dell’amica. Disse che voleva parlare con lui, e di non dire a Nadia della sua visita. Nadia ultimamente era nervosa, gliel’aveva detto anche Mario, sul lavoro era diversa.
Forse perché si scopa quel collega fino a prosciugargli il cazzo, pensò, ma si tenne l’osservazione per sé. Era in vestaglia e sotto portava delle mutande sporche. Non gli interessava di come si mostrava a quella puttana di Alice. La fece accomodare in salotto. Le offrì da bere e poi, mentre lei esponeva tutte le sue osservazioni inutili su Nadia, lui la prese a martellate, interrompendola proprio quando stava cominciando a parlare dei suoi sospetti sul prestante collega, ultimamente sembrava che facessero coppia fissa.
Le aprì un buco sulla fronte. Non contento, mentre dalla testa zampillava sangue, che poi avrebbe dovuto ripulire, le fracassò una mano con cattiveria. Svenne e così smise di strillare, rischiando di irritare i condomini. Non era il caso di fare chiasso, era un condominio tranquillo, con gente di una certa età.
Alice era a terra in una pozza di sangue, i seni strizzati dal vestito erano saltati fuori. Si leccò le labbra. La trascinò giù in cantina dopo averla messa sopra un lenzuolo, non incontrò nessuno per le scale. Meglio, così non avrebbe dovuto imbrattare di sangue anche le scale condominiali. Sarebbe stato tutto più complicato. In cantina si chiuse dentro. La spogliò e poi la appoggiò su una cassa in modo che il suo corpo fosse a disposizione per le sue voglie. Non era morta per cui non fece troppa fatica a scoparla. Lei riprese conoscenza solo dopo che si era ben svuotato dentro di lei. Sull’orgasmo, mentre lei riprendeva a strillare e contorcersi, calò il martello più volte, facendo una poltiglia della sua testa. Smise di strillare e il suo culo si strinse ancora più sul suo uccello. Venne di nuovo esplodendo di piacere. Poi si ritirò e pensò a come sbarazzarsi di lei. Vide la botola e pensò che era capitata proprio a fagiolo. Non perse tempo, la spinse di sotto, vide il suo corpo nudo sparire nel buio, divorato letteralmente dall’oscurità.
Tornò di sopra e ripulì tutto, fischiettando allegramente mentre lavorava. Alla fine fece un buon lavoro e si concesse anche un bicchiere di brandy, mentre attendeva il ritorno delle sue donne.

Si sentiva soddisfatto. Nella pienezza delle sue facoltà mentali.
Aveva ancora qualche ora prima del rientro di Nadia, scese nella botola. Voleva vedere Alice, darle un ultimo saluto. Raggiunse il fondo della scala e cercò a tentoni il corpo, non doveva essere caduto troppo lontano. Non trovò niente, come se il buio avesse divorato Alice. Con sgomento guardò nell’oscurità e per la prima volta si sentì osservato, osservato con cupidigia. Risalì la scala in fretta, lasciandosi alle spalle la massa oscura che solcava il buio.

A cena fu loquace e brillante. Grazia non alzava gli occhi dal piatto e mangiava a fatica, Nadia distratta si limitava ad annuire. Lui invitò Grazia ad andare a letto presto che aveva l’aria stanca, l’allusione lo fece sorridere. Lei piena di disgusto si alzò e andò rapida in camera, sbattendo la porta. Nadia non capì. Finì di mangiare e poi, adducendo un mal di testa, se ne andò a letto.
Rimase sveglio fino a tardi ripensando ad Alice. Alla sua espressione stupefatta quando lui aveva calato il martello. Sublime. Poi si alzò dal divano e andò in camera. Sollevò la coperta e guardò sua moglie, era in mutandine, aveva segni sulle gambe e sul seno. Lo faceva in modo violento con il suo amante, forse la picchiava. Nel caso se lo meritava. Niente al confronto di quello che le avrebbe fatto lui.
Andò in camera di Grazia, richiuse la porta. Lei era sveglia. Si mise seduta sul letto, col lenzuolo stretto al petto. Lo implorò di lasciarla in pace ma lui le disse di tacere, o tutti avrebbero saputo quanto puttana fosse a letto con suo padre. Mentre la violentava le teneva la bocca chiusa per impedirle di svegliare con i suoi gemiti sua madre. Quando finì si sollevò piano. Grazia si era addormentata, spossata dopo il lungo rapporto. Una luce fievole tagliava la stanza. Vide Nadia sulla porta, lo fissava piena di orrore.
-Come hai potuto?
Continuò a ripetere questa nenia per un po’, alternando insulti come ‘porco schifoso’ o ‘pervertito’, una specie di cantilena che voleva farlo sentire in colpa. Senza peraltro riuscirci. Non si sentiva affatto in colpa, questo era il punto. Era proprio quell’assurdo senso di colpa che lo aveva fregato tutto il tempo. Si era giocato una vita intera rispettando regole morali che disprezzava. Era stato vile. Ma ora era finita. Si avvicinò nascondendo il martello dietro la schiena, era nudo. Lei lo fissava piena di disgusto. Le lacrime rigavano il suo volto, teso in un’espressione altamente melodrammatica.
-E’ finita, me ne vado via, ti lascio e porto via Grazia, non avrei mai pensato che potessi fare questo.
Le lacrime sgorgarono ancora più copiose. Lui calò il martello e le portò via buona parte della testa. Si congratulò con se stesso, un colpo da campione, sogghignò. Grosse porzioni di cervello si erano attaccate allo stipite dalla porta, un grosso grumo di sangue e materia cerebrale era schizzato sul poster di Beyoncé che occupava la porta della camera. Stava scivolando sul seno della cantante. Nadia crollò ai suoi piedi, senza vita. Grazia non si era accorta di nulla. Sentiva il suo basso respiro, e il suono del suo mp3.
Sarebbe stato difficile ripulire tutto, pensava. Con Alice era stato semplice, nessuno sapeva che era stata da lui, non lo aveva detto a nessuno perché non voleva che Nadia lo venisse a sapere, nemmeno suo marito ne era al corrente. Così nessuno aveva sospettato di nulla. Ma con Nadia era diverso, sarebbero venuti a fare delle domande. Sarebbe stato seccante.

Trascinò il corpo in cantina. Non avrebbe perso tempo a violentarla , anche morta gli faceva schifo ormai. La gettò di sotto, la vide sparire nel buio. Attese e poi sentì quei suoni gorgoglianti. Tornò in casa. Doveva occuparsi di Grazia. In camera non c’era. La cercò ovunque. Non era in casa. Poi sentì le sirene della polizia, comprese e sorrise.

Due poliziotti fecero irruzione con la pistola spianata ma non trovarono nessuno in casa. Videro il sangue e i pezzi di cervello sparsi, ma nessuna traccia del corpo. Grazia era seduta nell’ambulanza, era sconvolta, chiedeva notizie della madre, qualcuno le diede una bevanda calda, fumante. Un poliziotto scese nella cantina. Non trovò nulla e risalì. Il corpo di Nadia non fu mai ritrovato. Il marito si era volatilizzato. Ben presto le indagini furono archiviate.

Sedeva nel buio forse da giorni, nell’attesa. Ma fuori erano passati anni, forse secoli. La lunga barba gli lambiva i piedi sporchi. Cieco guardava nell’oscurità pieno di speranza. Poi finalmente la grande massa si avvicinò. Era una forma nel buio, così grande che avrebbe oscurato il firmamento, sussurrava, sussurrava perché aveva fame, una fame assurda, infinita e implacabile.
Lui la sentì di fronte a lui così grande da sentirsi un trascurabile sassolino, non fuggì, restò ad attendere la sua fine, pieno di speranza.

Nicola Pasa, Sarzana 31 Ottobre 2018

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