In occasione della morte di Christopher Tolkien, figlio del grande scrittore inglese, e curatore delle opere del padre, vorrei parlarvi dell’artista, del ruolo sociale, della sua missione.

Tolkien
Tolkien era uno scrittore atipico, era un accademico, appassionato di letteratura medievale e di lingue antiche. Il suo maggiore divertimento era creare lingue. Ne inventò una, che ora è molto celebre e viene parlata in alcuni circoli nerd dediti al GDR fantasy, la lingua elfica. La lingua che inventò si chiamava Quenya, se volete impararla trovate alcune risorse online, cominciate da qui: Quenya – l’Antica Lingua.

Talmente seriamente prese questo giuoco che alla fine ci scrisse attorno un’opera di stampo biblico: Il Silmarillion. Un’opera monumentale, purtroppo non conclusa e che solo grazie al lavoro di Christopher ci è arrivata almeno in parte. Grazie al suo ingrato lavoro possiamo intuire quanto enorme fosse diventato quel mondo popolato dagli elfi, quanto stratificato e complesso.

Tolkien, mappa della Terra di Mezzo
I popoli della Terra di Mezzo divennero numerosi, e altre lingue vennero create per loro, e ogni popolo aveva la sua storia, e il suo posto nel mondo.
Curiosamente la preferenza di Tolkien non andò agli elfi, il popolo eletto, gli immortali che per primi furono creati, e neppure agli uomini, la razza meno longeva e più avida di potere. Le creature predilette di Tolkien furono gli hobbit. Più piccoli dei nani, tutt’altro che saggi, lontani dall’eroismo degli uomini, gli hobbit erano minuti, dediti alla coltivazione della terra. Amavano godersi la vita gozzovigliando, bevendo birra e fumando l’erba pipa, insomma erano tutt’altro che santi e virili. Eppure Tolkien sceglie come eroi per il suo libro più famoso proprio loro. E alla fine la scelta si rivelerà la più saggia ed equilibrata. Solo alla fine infatti quando tutti i nodi saranno sciolti scopriremo che l’Unico Anello poteva solo essere affidato a Frodo, tutti gli altri avrebbero fallito.
Tolkien era uno scrittore strano, ha scritto opere molto popolari, che potevano piacere a lettori colti ma anche a lettori occasionali, amanti delle avventure, ma la sua dedizione era genuina, non costruita.
Nel 1961 il suo amico Lewis lo nominò per il premio Nobel ma l’accademia di Stoccolma rifiutò, ritenendo i suoi romanzi “prosa di seconda categoria”.
La colpa di Tolkien non era certo questa. La sua prosa non era alla moda, erano tempi di flusso di coscienza, Joyce era un maestro con un sacco di discepoli, molti erano solo dei banali scribacchini che cercavano di vivere della luce riflessa del grande irlandese. La scrittura di Tolkien era ricercata ma era finalizzata a illustrare quel mondo che lui aveva immaginato. Impossibile scindere quel mondo da quella scrittura. La miopia dell’accademia è tutta qui. Nel non riuscire a comprendere che cosa stava cercando Tolkien.

Non si può giudicare Tolkien con criteri normali. Tolkien era completamente disinteressato, le vicende dell’attualità non entravano nella sua opera, restavano fuori dal suo studio, il mondo esterno con le sue guerre combattute per l’avidità del potere, con i progetti di sterminio, con personaggi in preda a deliri di onnipotenza, era quanto di più lontano potesse esserci dal suo mondo immaginario. Non c’era nessuna similitudine, neppure gli orchi erano simili ai nazisti.
Una volta qualcuno chiese a Tolkien cosa sarebbe accaduto nel Signore degli Anelli se a contendersi l’anello fossero stati gli alleati e i nazisti. Tolkien disse che probabilmente gli alleati avrebbero preso l’anello per usarlo contro i nazisti, non l’avrebbero certo distrutto. Così annientò ogni pretesa di attualizzare o di cercare metafore sull’oggi all’interno della sua opera.
L’unica intenzione di Tolkien era quella di aderire quanto più seriamente fosse possibile alle regole del suo gioco. Ed è quello che fa ogni grande scrittore. Prende seriamente le regole che egli stesso crea e le segue fino alla follia.
Quel che non si capirà mai troppo degli scrittori è che essi fanno la loro cosa per chiudersi alle spalle il mondo, per fuggire in un certo senso in altri mondi da loro creati. L’arte è un processo creativo di grande potenza. Per portarlo a termine occorre prima distruggere, fare il vuoto, e la cosa da distruggere è il mondo come lo conosciamo. Come ci appare a noi, come ci appare distorto ai nostri sensi imperfetti, come ci sfugge, come ci illudiamo di poterlo conoscere.
Per questo e cento altri motivi non ha senso per uno scrittore parlare dell’attualità in un suo libro, men che meno della società, o della realtà.
I peggiori libri che si possono trovare in commercio parlano di psicologia, di traumi famigliari, di cui non ci frega veramente nulla. Non ci interessa da lettori la storia della famiglia dello scrittore, non ci interessa indagare i rapporti tra le persone. Ci interessano i rapporti tra i personaggi, ci interessa la magia che lo scrittore usa per farli interagire, per renderli vivi ai nostri morti sensi.
Non ci interessa la psicologia, ci ributta, ci interessa invece la psicologia tutta personale che lo scrittore infonde alla sua opera. Una psicologia molto più profonda di quella che trovi nei giornali, una psicologia che non spiega un bel nulla, una psicologia che al contrario confonde i piani, la prospettiva, crea sviste, distoglie l’attenzione, perché lo scrittore ha bisogno che il lettore perda le tracce, che il lettore si smarrisca tra le sue pagine, che non trovi più il senso, che non trovi comodo starci, che non si aggrappi alle sue conoscenze del mondo di fuori, lì non serviranno affatto, non ci sono appigli.
Tolkien è stato letto purtroppo da tanti troppi cattivi lettori, lettori che interpretano, lettori che traggono morali dai libri, insegnamenti (si sente persino la puzza di questi individui unti e spocchiosi), metafore per leggere la realtà o ancora peggio lettori che piegano le loro letture alla politica. Costoro non hanno capito nulla di Tolkien. Perché non si sono mai realmente abbandonati alla lettura, non sono mai entrati davvero in contatto con quel mondo perduto che è la letteratura. Mi spiace per loro, pensano di essere saggi lettori, di essere avveduti e invece semplicemente non sanno leggere e non amano l’arte.
In realtà non c’è poi questa grande differenza tra Tolkien, Joyce e un qualsiasi scrittore horror. Tutti hanno in comune un terreno, che è quello dell’immaginazione, un terreno aspro e accidentato, disseminato di trappole ma molto eccitante.
Ma quanto più lo scrittore si disinteressa del chiacchiericcio esterno, delle mode letterarie del momento, di quel che dice o non dice la “critica” o di che parlano i suoi “colleghi”, quanto più il suo lavoro o la sua arte risuonerà del suo particolare tono, qualcosa di intimamente suo, che potrà renderlo immortale o farlo dimenticare in fretta, non importa, conta solo essere dediti al proprio gioco, portarlo fino in fondo, dimentichi del mondo e dei suoi accidenti, completamente indifferenti alla tragicommedia umana, che ci riguarda come uomini ma non come scrittori. Proprio come Tolkien, proprio come Joyce, che scrisse l’Ulysse perché non gli importava nulla di essere letto, gli importava solo portare a termine il suo gioco. Lo scrittore è un bambino che vuol giocare in pace e tutta la vita combatte perché non lo disturbino, perché lo lascino giocare e non lo tedino con la vita e le sue noie. 

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